Dolores Corona, Mamma di bambino con Dislessia
Gianluca Lo Presti (web),
Psicologo e Neuropsicologo dello Sviluppo, Servizio di Neuropsicologia e
Psicopatologia dell’Apprendimento, Catania e Messina.
< E se la torta diventa trota,
nessuno si arrabbia più, perché sappiamo che non dipende da lui, non è
né “asino”, né “diverso”, né quant'altro pensava di essere: é
semplicemente dislessico!>
Una definizione è sempre soggetta dal punto di vista di chi la proferisce. Dal punto di vista della ricerca clinica, nel 1990 Hammil, uno degli studiosi più importanti, definisce i DSA come “un gruppo eterogeneo di disturbi manifestati da significative difficoltà nell’acqusizione e nell’uso di abilità di ascolto, espressione orale, lettura e matematica, presumibilmente dovuti a disfunzioni del sistema nervoso centrale”. Hammil continua dicendo che i DSA possono verificarsi in concomitanza con problemi nell’interazione sociale, difficoltà culturali e d’istruzione, ma che questi non causano i DSA.
Infatti, essendo una
problematica si base neurobiologica, osservazioni del tipo “si impegna
poco” “è pigro” “impiega molto, troppo tempo”, non sono da imputare al
ragazzino, ma alla problematica, anzi il ragazzino andrebbe gratificato
per l’immenso sforzo che impiega per affrontare lo studio.
Oggi i passi
avanti sono stati molteplici grazie ai genitori, clinici ed associazioni
che li hanno rappresentati, sino ad arrivare nel 2004 alla prima
Circolare Ministeriale che invitava all’uso di misure compensative e
dispensative. Un altro passo avanti è stato nel 2007 con la Consensus
Conference in cui vi sono stati improntati i parametri per la diagnosi
clinica di DSA, nel 2010 la vittoria più attesa con la Legge n°170
definita “Nuove norme in materia di disturbi specifici di apprendimento in ambito scolastico”, in cui all’interno vi è il riconoscimento istituzionale della problematica. In tal senso vorremmo citare almeno l’Art. 1 “La
presente legge riconosce la dislessia, la disgrafia, la disortografia e
la discalculia quali disturbi specifici di apprendimento, di seguito
denominati «DSA», che si manifestano in presenza di capacita` cognitive
adeguate, in assenza di patologie neurologiche e di deficit sensoriali,
ma possono costituire una limitazione importante per alcune attivita`
della vita quotidiana.”
Quando
nella legge vi troviamo il termine “vita quotidiana”, di certo, ci si
riferisce a quello che una mamma scrive della sue esperienza di genitore
di bambino con DSA:
«L'asilo
e comincia la scuola. Passano i giorni. I parenti e gli amici iniziano a
chiedere come va la scuola.Va male, ecco come va. Stranamente ed
inspiegabilmente male.
Le giornate sono scandite dai compiti, preparare la cartella, imparare a leggere e scrivere.
E già, qui è il punto...
“La lettera a Babbo Natale non la scriverò di certo. Se non mi dà una mano la mamma, rischio che mi porti un cudo, un ternino e se niente niente voglio una macchinina elettrica rinuncio
in partenza!” A questo punto viene la parte difficile per una mamma:
passare oltre la cortina dei pianti e della rabbia per arrivare a
scoprire che c'è un effettivo “problema”.
Non
si parla solo ed esclusivamente di lettura e scrittura, di crisi di
pianto per i compiti, di lettere sbagliate, invertite, confuse, di
grafia illeggibile e faticosa, di sillabe che si mescolano nella
lettura. I Disturbi Specifici di Apprendimento, in quanto caratteristica
di una persona, fanno parte di ogni aspetto della sua quotidianità.
Come
mai in pieno pomeriggio mio figlio mi dice: “dopo facciamo il pranzo o
la cena?”. Perché tutti si allacciano da soli le scarpe e lui no. Perché
nello sport continua a “litigare” con la palla? Come mai fa così fatica
a imparare a leggere l'orologio?
E poi c'è il disturbo del linguaggio che lo limita, e la fatica a trovare la parolina che non viene...
Così,
in questi che dovrebbero essere gli anni spensierati dell'infanzia, il
bambino che conoscevo solare ed entusiasta diventa sempre più cupo,
oppositivo. Sempre più solitario. Sempre più triste.
La convinzione di valere poco si insinua in lui, l'autostima va sotto i tacchi.
E iniziano i mal di pancia, gli incubi notturni.
No, questo non mi quadra. C'è qualcosa sotto che ancora non capisco, ma di sicuro c'è.
A
distanza di anni posso dire che sì, qualcosa c'era (dislessia,
disgrafia e disortografia. Non abbiamo fatto il pieno con la
discalculia, ma ci siamo difesi bene!).
Devo mettere nel cassetto le passate battaglie per i compiti: non sapevo, non avevo capito.
Ora
facciamo più pause, strutturiamo meglio il lavoro. E ci facciamo
aiutare da mappe concettuali, tavola pitagorica, dal computer..
Mio figlio AMA la lettura, anche se lui non legge bene, questo è importante!
E se la torta diventa trota,
nessuno si arrabbia più, perché sappiamo che non dipende da lui, non è
né “asino”, né “diverso”, né quant'altro pensava di essere: é
semplicemente dislessico!
Nessuno
nega che sia un percorso difficile! Specie perché, pur se in famiglia
il capire e conoscere rende il “problema” non più così problema, molto
spesso ci si deve confrontare con chi non conosce e non capisce. Ecco,
penso proprio che sia questa la parola chiave: CAPIRE»
(Sabrina Fusi, Socio Fondatore OSD Organizzazione a Sostegno della Dislessia).
In
conclusione, per definire i Disturbi Specifici dell’Apprendimento
bisogna comprendere da quale punto di osservazione vengono trattati gli
stessi, se dal punto di vista clinico, scolastico o di vita quotidiana attraverso gli occhi attenti dei genitori.
Ma,
di certo, essere dislessici vuol dire molte cose, e tra queste molte,
noi sappiamo che la creatività dei ragazzini con dislessia ha un così
notevole potenziale da trovare soluzioni nuove e semplici a problemi
complessi e in parte sconosciuti. Signori anche questa è dislessia, e va
conosciuta.